A che punto è la storia

Editoriale di Victor Magiar sulla newsletter Sinistra per Israele.

Ottanta anni fa tutti gli Stati arabi erano in guerra contro Israele: oggi nessuno.

Un cambiamento enorme reso ancora più significativo dal fatto che in questo ultimo anno, per ben due volte, alcuni Stati arabi hanno addirittura contribuito a difendere Israele dagli attacchi lanciati dall’Iran.

Mondo arabo vs panislamismo.

Il Mondo arabo, lasciata alle spalle la fallimentare esperienza panarabista (con la sua lunga collezione di dittatori sanguinari) sta cercando da diversi anni di liberarsi anche della tragica ideologia panislamista che ha già causato enormi disastri e che ha insanguinato non solo il Medio Oriente ma anche le terre africane e le strade d’Europa.

È infatti islamista l’alleanza contro Israele: un’alleanza di fazioni finanziate ed armate dall’Iran e ambiguamente sostenute dalla Turchia, due paesi, questi, non-arabi. E islamiste sono anche buona parte delle fazioni belligeranti nelle oltre 50 guerre in corso oggi nel mondo.

Il patto “tacito” fra buona parte dei Paesi (regimi) arabi ed Israele è così forte che – nonostante la gravità del conflitto in corso che si trascina da più di un anno – non solo gli Accordi di Abramo restano ancora in piedi ma addirittura i governanti Sauditi (che vietano sul proprio territorio qualsiasi manifestazione pro-Palestina) non perdono occasione per ribadire che sono pronti a siglare anche loro un accordo con Israele una volta individuata una soluzione della questione palestinese, ovvero, più cinicamente, quando Israele “avrà finito il lavoro”.

È bene capire che un patto così forte – che non si rompe dopo 14 mesi di guerra, dopo decine di migliaia di morti, e che comporta addirittura la difesa indiretta di Israele – è qualcosa davvero importante per i regimi arabi: non si tratta di “amore” ma di una fondamentale scelta strategica che permetterà di affrontare e risolvere un ineludibile nodo storico mai sciolto dalla caduta dell’Impero Ottomano, ovvero l’accesso alla modernità del mondo arabo-islamico.

L’accesso alla modernità del mondo arabo-islamico.

Dopo le disastrose esperienze del panarabismo e del conseguente “ripiegamento” islamista, le leadership arabe stanno cercando da alcuni anni di concretizzare una politica pragmatica e realistica capace di conciliare modernità e tradizione arabo-islamica: una visione del resto già delineata negli anni Cinquanta dal lungimirante presidente tunisino Bourghiba.

Dopo le fallimentari collaborazioni con i Paesi occidentali o del Blocco sovietico – che mai hanno realmente contribuito al progresso delle popolazioni dei Paesi arabi – la collaborazione con Israele, che sarebbe una “collaborazione alla pari”, rappresenta la possibilità di una rivoluzione politica, economica e tecnologica senza precedenti.

Non ci vuole molto ad immaginare cosa potrebbe nascere dal sodalizio fra l’avanzatissima tecnologia e ricerca scientifica israeliana e le infinite risorse finanziarie dei paesi del petrolio: un nuovo “mercato comune”, un enorme spazio di scambi commerciali, consumi e turismo; un nuovo Medio Oriente “più sicuro” e la formazione di società più aperte, animate da inedite classi medie lavoratrici, insomma, l’approdo alla modernità.

È questa una decisiva questione storica che sfugge a molti osservatori occidentali abituati a vedere in Medio Oriente solo le dinamiche etniche/nazionali e incapaci di riconoscere le ideologie e i partiti.

Israele è un Paese mediorientale.

Anche per Israele questa sarebbe una svolta storica, non solo e non tanto per la possibilità di vivere in pace, ma soprattutto perché significherebbe il raggiungimento del traguardo, tangibile e produttivo, di essere finalmente un paese mediorientale in mezzo ad altri paesi mediorientali.

Israele è un Paese mediorientale, in tutto e per tutto, nel bene e nel male: anche questa è una questione storica che sfugge agli osservatori occidentali (soprattutto a quelli europei) che percepiscono Israele come un paese europeo fondato da europei.

In realtà gli ebrei europei, pur forgiando il Paese e le sue istituzioni democratiche e socialiste, sono stati maggioranza per pochissimi anni, e sono comunque elettoralmente ininfluenti da quasi 50 anni: l’ottanta per cento degli ebrei israeliani sono in qualche misura mizrahim, cioè, discendenti di quel quasi un milione di ebrei profughi dai paesi arabi.

Inoltre, gran parte di coloro che consideriamo di origini europee in realtà, da almeno due generazioni, sono sabra, ovvero nati in Israele, quindi mediorientali anch’essi. Non bisogna poi scordare che il restante trenta per cento della popolazione israeliana, non-ebraica, appartiene ad antiche comunità mediorientali.

Israele è un Paese mediorientale e segue logiche mediorientali, si confronta e si scontra con altri attori mediorientali, e approderà ad un accordo sostenibile nel contesto politico-culturale mediorientale.

Non sono l’Europa o il Mondo l’orizzonte di Israele: è il Medio Oriente il posto di Israele.

La pace passa da Riyad, la guerra da Teheran.

L’Europa o il Mondo, le grandi potenze o l’ONU, non sono certo in grado oggi di forzare le parti in causa per trovare un accordo; la loro incompetenza e impotenza sono ben dimostrate dagli oltre 50 conflitti in corso oggi nel mondo, con un numero impressionante di morti (quasi 300.000 nella guerra nel Tigray, oltre 280.000 in quella Russia-Ucraina, oltre 500.000 in Siria).

Saranno invece i Paesi arabi che ora pazientano e difendono Israele a realizzare un accordo perché questo è il loro più grande interesse.

Di fronte a questo interesse strategico la cosiddetta questione palestinese risulta essere non solo un grande ostacolo ma una seria minaccia, non tanto per l’avventurismo, il fanatismo e l’inconsistenza dei gruppi dirigenti palestinesi, ma soprattutto per la loro storica inclinazione a mettersi al servizio di leader stranieri: un tempo i dittatori arabi di turno, oggi gli ayatollah di Teheran.

Alla fine di questa ennesima crisi, e dopo l’elezione di Trump, i principali Paesi arabi e Israele addiverranno ad un accordo globale che inevitabilmente penalizzerà le aspirazioni palestinesi, che dovranno scegliere una volta per tutte se stare con Teheran o con Riyad.

La posta in gioco.

È tempo che politici ed osservatori occidentali (a iniziare da quelli nostrani) abbandonino le consuete visioni caricaturali sul conflitto mediorientale ed anche che perdano l’attitudine a dare giudizi moralistici e apocalittici (che curiosamente non applicano mai per altri conflitti).

È tempo che politici ed osservatori occidentali comprendano che la vera posta in gioco non è la sconfitta o la vittoria di un popolo su un altro (o di Hamas o di Nethanyahu), quanto piuttosto la costruzione di un nuovo ordine in Medio Oriente, che permetta l’accesso alla modernità e la rinascita dei popoli arabi, prima che finisca la facile ricchezza garantita dal petrolio.


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