Lo scrittore francese Emmanuel Carrère ha appena pubblicato un piccolo libro “Ucronia”, dove prova ad immaginare come sarebbe andata la storia, se alcuni avvenimenti fossero andati diversamente, come il mondo avrebbe potuto o dovuto essere, le vite possibili e alternative che sogniamo o paventiamo
La lezione da trarne è che, quando si leggono a ritrosi eventi e processi storici, spesso si cade nella tentazione di vedervi sempre un filo che li lega in maniera concatenata e secondo un assoluto determinismo. Ma non è cosi; nella storia ci sono offerte varie e possibili soluzioni e risposte ai problemi posti, però alla fine è quella determinata scelta, fatta in quel preciso momento fra le varie opzioni possibili, quella che conta ed in cui si esercita il libero arbitrio e la responsabilità individuale, collettiva, di una nazione e di un popolo
Poi arrivano momenti, snodi decisivi che, quelli sì in base alle scelte fatte, ne determineranno le fasi successive: ad esempio di accelerazione o di arresto di processi in essere nel profondo delle società e, come nel principio fisico dell’entropia, quando si producono alcune rotture esse sono irreversibili, non più ricomponibili e la totalità infranta non ritornerà. La scelta del popolo americano, che elesse Donald Trump nel 2016, rappresentò un evento inaudito e imprevisto e che portò alla presidenza degli USA una figura dai tratti per molti aspetti eversivi rispetto all’ordine costituzionale degli States.
Certo oggi le basi elettorali di Trump appaiono, anche agli occhi degli analisti più disincantati, ancor più incompatibili con il sistema di check of balance e con la tradizione istituzionale americana. Lo si è visto al momento della rivolta al Campidoglio, alla proclamazione di Biden nel 2021 e nel ruolo di rottura degli equilibri politici tenuto in questi anni e lo conferma la crescente tensione mobilitatasi intorno sua ricandidatura all’insegna del timore di attentati contro la sua persona.
La presidenza positiva di Biden, positiva per tanti aspetti, ha sofferto sul piano internazionale dell’invasione russa dell’Ucraina e del riesplodere della guerra in Medio Oriente. L’evidenza della totale incapacità della leadership democratica, nonostante gli sforzi della sua diplomazia di gestire e governare il caos internazionale di questi anni, il riluttante impero americano debole, ma di cui non si può fare a meno per tentare di gestire le crisi, consegna di per sé alla nuova presidenza Usa un compito arduo. E qui la diversità di impostazione tra l’autoritarismo trumpiano e l’impostazione liberale di Kamala Harris non potrebbe essere più marcata. Tuttavia come si sa il tema del confronto elettorale americano non vede in primo piano la politica estera ma i problemi interni, dove nonostante i risultati economici positivi, anche rispetto alla occupazione (ma frenati dal riesplodere dell’inflazione), la divisione e il malcontento di parte della società americana rimangono estesi a conferma dei cambiamenti sociali e di azione culturale profonda avvenute in questi anni.
La secessione del popolo e di una fetta consistente delle fasce intermedie della società, dalle sue rappresentanze istituzionali, la concomitante ridislocazione di poteri e organizzazione degli interessi (vedi il ruolo di una figura come Elon Musk ) delinea da tempo sotto i nostri occhi i contorni di un possibile nuovo assetto, di una delle possibile via d’uscita dalla crisi posta dai processi di globalizzazione di questi anni, un nuovo tipo di compromesso tra le libertà e il mercato, dove alcune delle garanzie del sistema dei diritti e delle procedure, della distinzione e degli equilibri tra i poteri, dei meccanismi elettivi della democrazia che abbiamo sin qui conosciuto, potrebbero arretrare sensibilmente verso inedite forme di autoritarismo, di fronte ad un nuovo rapporto tra masse e potere. Il tutto in uno scambio politico in cui il processo di inclusione della “gente” avverrebbe non con l’ampliamento della sfera dei diritti, delle responsabilità e dell’emancipazione, ma solo su un piano meramente acquisitivo, individuale, consumistico, di accesso alle risorse, di riassicurazione e di risposta immediata e diretta a bisogni, desideri, pulsioni e paura, dove, come scrisse a suo tempo Bauman «i tradizionali meccanismi di salvaguardia democratica potrebbero venir sostituiti di fatto dall’agglutinamento del potere in modelli autoritari».
Le democrazie occidentali in questi anni sembrano consegnare al populismo di destra, su parole d’ordine allo stesso tempo identitarie e divisive, revansciste e moderne, la rappresentanza e la voce a ceti e gruppi sociali che la politica non riusciva più a raggiungere. I forgotten men, i dimenticati, a cui, con rara capacità intuitiva e sintesi comunicativa si è sempre rivolto non solo Trump, ma anche i sovranisti europei.
Dall’altro canto andrebbero maggiormente analizzati i meccanismi e i dispositivi sociali, politici e comunicativi che hanno permesso l’attivazione, la mobilitazione e la partecipazione di quella zona grigia della società americana da sempre ai margini nella scena sociale e politica. Una forza del consenso derivata e autoalimentata dalle modalità di comunicazione sociale del web in cui, saltate nel corpo sociale tutte le mediazioni e ridotti i corpi intermedi ad un ruolo irrilevante nella costruzione dell’agenda politica, è la stessa funzione dei partiti politici (anche nella loro versione leggera, elettorale e lobbistica) che finisce con l’essere superata a favore di un rapporto diretto, tra leader, potere e cittadini.
Quel che non siamo in grado di prevedere oggi è la forza e la consistenza di questa ridislocazione sociale e antropologica e di questa estrema polarizzazione elettorale (nel consenso elettorale gli USA al momento sembrano spaccati in due metà sostanzialmente equivalenti, ma in cui la mobilitazione e la composizione dei collegi elettorali negli stati incerti farà la differenza). Cade definitivamente ogni quadro ideologico, così come la divisione dell’elettorato tra destra e sinistra. La frattura politica diventa culturale e trasversale: casta e popolo, élite e working-class. Grandi aree urbane e aree rurali, livello di istruzione, appartenenza di genere sono vere linee di frattura più di quelle economico sociali classiche. Ed è un processo che si influenza e si auto influenza dagli Usa all’Europa.
Da tempo la sinistra progressista, èlite borghesi, esponenti del capitalismo globale e finanziario, mondo della cultura delle università, dei media e dei grandi organi di stampa, oltre che dello star system sono alleate dei democratici nelle presidenziali, dimenticando oltre al mondo operaio e dei lavoro povero, i 62 milioni di americani che vivono nelle aree rurali di stati decisivi elettoralmente e questo confermerà il conservatorismo radicalizzato e una destra di popolo che potrebbe segnare la definitiva trasformazione del partito repubblicano.
Se la faglia è trasversale alla società, le alleanze, il confronto e il dialogo dovranno essere trasversali tra aree socio-culturali diversi, anche se recentemente il settimanale The Economist ha profetizzato una sorta di vittoria a “prescindere” di Trump, in ripresa nei sondaggi, dando una lettura negativa della nuova postura della Harris, che si sta spostando sulle posizioni del suo avversario. Idee insomma che sembrerebbero aver già vinto, sull’immigrazione innanzitutto, sui temi della sicurezza, sulle politiche energetiche e sul cambiamento climatico.
Nessuno degli analisti dopo il 2016 si sbilancia in pronostici: tutti temono il rischio di rivolte civili da parte degli attivisti di Trump che non riconoscerebbero l’eventuale vittoria della Harris. Nessuno sottovaluta i rischi e le diversità dei due candidati, ma in questa seconda fase della globalizzazione all’insegna di uno scollamento e di una frammentazione complessiva, legate anche alla crisi dell’egemonia americana, sembrano confermarsi tendenze e trend di fondo che, pur con caratteristiche e velocità diverse a seconda dei candidati, rimarranno a prescindere da chi vincerà il 5 novembre: un maggiore isolazionismo e un rinato protezionismo economico (inaugurato dal primo Trump e confermato da Biden) e un cambiamento più o meno graduale dell’impegno militare e difesa, imperniato attorno alla Nato che chiederà una diversa partecipazione all’Europa.
Siamo in un passaggio di fase che segna la dissoluzione del diritto internazionale pubblico del dopo Guerra fredda, del dopo 1989, simbolicamente segnato oggi dalla totale impotenza politica delle Nazioni Unite e della giustizia internazionale
Il susseguirsi rapido e violento di accadimenti fa giustizia di un’intera epoca, mentre sul tappeto ormai vi è il destino stesso delle forme di una civiltà giuridica e statuale e la necessità di una sua rifondazione. Tuttavia la guerra e il caos non sono necessariamente lo stadio ultimo necessario. La fine del ciclo della fase più espansiva della globalizzazione non ha eliminato l’interdipendenza tra le economie e le società, anche se queste sono maggiormente controllate dagli Stati. Con l’eccezione della Russia, la tentazione di un’economia di guerra si scontra con la resilienza del commercio e dei mercati globali.
Abbiamo pagato lo scotto di un’illusione, radicata nel pensiero liberaldemocratico occidentale da Montesquieu in poi, che là dove passavano le merci non sarebbero passati gli eserciti e che l’espansione del mercato avrebbe trasformato i regimi politici in democrazie. Deve essere chiaro però che la pace passerà soprattutto attraverso un nuovo equilibrio di potere. Una strada difficile in un sistema multipolare, eterogeneo e variabile. Tuttavia, non è impensabile la graduale ricostruzione di un ordine mondiale tra le grandi potenze, purché abbiano un interesse comune a trovare una risposta ai rischi planetari e ad evitare l’escalation di una guerra totale.
Ma ciò implica che anche le democrazie facciano del contenimento della violenza la loro priorità, ristabiliscano la loro capacità di agire anche come deterrenza e che l’Unione Europea, se vuole realmente avere un peso politico nelle relazioni internazionali, ripensi sé stessa anche come potenza, cosa che impatterà sulla nostra tradizione di agende politiche estranee in larga maggioranza a questa cultura e a questo orizzonte.

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